Dopo una vita da dirigente sportivo, maturata tra Italia, States e Turchia a presidente di Lega. Ma nonostante un passaggio del genere, l’approccio non vuole e non deve cambiare perché, come dice lui stesso, «ho sempre e comunque una squadra da gestire, solo che adesso è fatta di 16 società». Maurizio Gherardini, presidente designato della Lega Basket Serie A eletto a fine giugno, ama definirsi un uomo pragmatico concentrato molto di più sul fare che sul raccontare, che dà più importanza al presente – e all’immediato futuro – che al passato anche se fatto di glorie e riconoscimenti globali, come nel suo caso.
Nella lunga intervista concessa a Sport e Finanza, il presidente designato della LBA parla degli obiettivi a cui può ambire il basket italiano, un movimento dinamico e per certi versi “pioneristico”, come nel caso della nascita di LBA TV, ma anche delle lunghe stagioni vissute all’estero e del bagaglio di esperienze che possono fare scuola.
Domanda. Partiamo dalla stretta attualità. È notizia fresca la nascita di LBA TV, la prima piattaforma di streaming del nostro basket. Non è eccessivo parlare di rivoluzione mediatica. Qual è il suo punto di vista?
Risposta. È stata una decisione unanime da parte dei club e questo dato è decisamente confortante. Nel senso che il quadro è stato studiato a lungo e si è deciso tutti insieme che era il cammino corretto da percorrere.
Mi preme poi sottolineare che siamo i primi, a livello delle principali leghe europee, ad aver intrapreso un percorso del genere, siamo in anticipo rispetto a tutti, forse siamo anche un po’ una cavia ma siamo convinti che i tempi siano maturi.
Il mercato dei diritti tv ha preso un trend ben noto e dobbiamo cercare di percorrere nuove strade per avere un modello di business diverso, che generi ricavi maggiori per garantire maggiore sostenibilità. Certo, non abbiamo tutte le risposte ma la direzione è chiara.
D. La partita dei diritti tv ha cambiato radicalmente passo nelle ultime stagioni, come ha confermato. Ma il basket italiano, oltre alla grande novità di LBA TV, sarà su Sky e in streaming su NOW allargando la platea potenziale di appassionati. Un risultato non da poco, raggiunto anche grazie al lungo lavoro del suo predecessore, Umberto Gandini.
R. Gandini ha fatto il grosso del lavoro, e l’ha fatto nel migliore dei modi, anche grazie alle sue importanti esperienze passate tra calcio e diritti. Io sono arrivato nel periodo finale di negoziazioni e decisioni e devo dire che ci siamo trovati pienamente d’accordo: entrambi eravamo dell’idea che ci fosse la necessità di provare una strada diversa.
Adesso arriva il bello: dobbiamo aumentare la fidelizzazione del pubblico esistente e dobbiamo allargare questa nostra base. Gandini, oltre all’accordo con Deltatre ha sretto un triennale con Sky che io ritengo sempre più la televisione del basket, in grado di fornire prodotto super. Avere Sky come alleato, anche nella nostra decisione della LBA TV, è importante. Ora, come ho detto, arriva il bello.
D. Ricostruiamo ora un po’ di storia. La sua elezione alla presidenza della Lega Basket Serie A coincide con il suo ritorno in Italia; una sorta di cerchio ideale che va dunque a chiudersi. Che ricordi ha dei suoi primi anni nel basket italiano, tra la Libertas Forlì e la Benetton Treviso?
R. Di anni ne son passati e tanti. Devo dire che ho avuto la fortuna di avere una sorta di scuola di vita completa nella Libertas Forlì. In quella squadra ho giocato e ne son diventato general manager. In mezzo ho affrontato tutti gli step, da allenare i ragazzini, a vendere i biglietti. Insomma, una gavetta importante che mi ha dato le basi solide per continuare a crescere. Così, quando è arrivata la chiamata di Treviso ho saputo reggere al cambio di direzione, reggere le responsabilità e la pressione.
Un conto è il doppio lavoro (a Forlì era anche impiegato di banca N.d.R.), un conto è buttarsi completamente nell’esperienza del basket in una realtà unica in Europa in quel tempo. Perché all’epoca nessun altro aveva quei mezzi, non tanto come budget ma come possibilità di organizzare un percorso, creare eventi e fare scouting internazionale. Quei 14 anni a Treviso sono stati un qualcosa di unico, anche per la possibilità di lavorare con allenatori e giocatori unici, grandi nomi che hanno fatto il basket in Europa.
D. Come ha trovato il basket italiano dopo tanti anni di distanza; cosa l’ha stupita in positivo e cosa invece l’ha convinta meno?
R.Ho finito in Turchia (al Fenerbahçe, con tanto di vittoria dell’Eurolega N.d.R.) a giugno, quindi sono arrivato veramente da poco. Chiaramente ho sempre seguito il nostro campionato e, visto da fuori, dal mio personale osservatorio, la cosa che mi ha stupito in positivo quest’anno è stato il maggior equilibrio.
Non c’è più il solito duopolio (Milano – Bologna) ma c’è più imprevedibilità e la vitalità è un grande plus per la Lega.
Se devo considerare un aspetto che mi convince meno è che le strutture, intese come società, sono molto diverse, con parametri troppo diversi. Per intenderci, se il budget è 100 non puoi dare 100 al roster.
Devi compenetrare, pensando ai social, al marketing, al commerciale…
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D. A livello sistemico qual è lo stato di salute economico del nostro basket?
R. Come dicevo prima il dato positivo da sfruttare è la maggiore competitività, che comporta maggiori investimenti e altrettanta attenzione. Dopo anni di stallo, se stallo si può definire, abbiamo anche investimenti importanti nei palazzatti: tra un mese si inaugura Tortona, a Venezia stanno realizzando qualcosa di incredibile e a Bologna son finalmente partiti i lavori.
D. Tornando al suo percorso, dopo le lunghe stagioni nella dirigenza trevigiana è arrivata la chiamata Oltreoceano. Cosa ricorda di quei momenti e come riassumerebbe la sua esperienza a Toronto.
R. Toronto è una realtà multietnica che dà un impatto positivo ai giocatori europei e conta inoltre su una comunità italiana grandissima, un’esperienza incredibile. Ricordo il primo impatto, la prima volta che un dirigente non americano entra nella stanza dei bottoni di una franchigia. Era un mondo che si andava a visitare, farne parte era qualcosa di indescrivibile.
Dell’NBA vieni colpito dalla grandezza delle cose, dal dispiego di risorse. Va anche detto che è una lega commerciale ed è un concetto di sport molto diverso rispetto al sistema promozione – retrocessione. Ma al di là di questo non c’è niente di paragonabile, quando qualcuno lo fa non capisce che, semplicemente, sono dimensioni che non possono essere sovrapposte.
D. Negli States ha trascorso sette anni, poi passa in Turchia. Un cambio di scenario – non solo geografico – non indifferente rispetto. Facendo la somma delle sue esperienze all’estero, quali lezioni si possono apprendere dalla Turchia per il movimento cestistico italiano? E cosa invece importerebbe dagli USA?
R. Della Turchia, mi ha colpito in generale la loro capacità di fare investimenti nelle strutture. E non parlo solo di Istanbul, che è una grande metropoli, ma di come ogni città può contare strutture di qualità che aiuta lo sport, qualsiasi disciplina.
Le aziende private sono spinte e favorite nel sostenere lo sport e soprattutto le grandi aziende “tifano” per sostenere lo sport in maniera concreta. Dagli USA invece mi piacerebbe prima di tutto importare le regole: certe e trasparenti.
Poi, e questo abbraccia tutti gli sport, perseguire il concetto di sostenibilità e, da ultimo, ma assolutamente importante, il modo di trasmettere le cose. Su qualsiasi argomento sportivo, il messaggio viene trasmesso sempre in positivo, guardando alla possibilità di costruire, di promuovere e di generare entusiasmo.
D. Parlando di NBA cosa ne pensa dei progetti discussi a più riprese di avviare una competizione europea “a marchio”?
R. Sono stato coinvolto nel board Eurolega fino a qualche settimana fa, quindi non posso che essere oggettivo. Premesso questo, l’NBA ha sempre usato il termine “esplorazione”, per parlare dei suoi progetti sul mercato europeo e siam di fronte alla Lega di maggior successo sportivo a livello globale.
Detto questo credo che l’Europa abbia già una bellissima competizione che rispecchia i suoi valori, le tradizioni, i mercati, insomma il basket del Vecchio Continente in tutto e per tutto.
Volendo augurarsi qualcosa, mi piacerebbe che questa “esplorazione NBA” portasse a un coinvolgimento dei principali stakeholder (Eurolega, Fiba, ecc) a trovare una soluzione, piuttosto che pensare ad altre leghe. È un augurio, un desiderio. Poi la realtà è o può essere un’altra.
D. Dopo quattro decenni da manager di singole società si ritrova ora, come detto in apertura di intervista, in un ruolo differente, quello di presidente di lega che deve lavorare per il bene comune. Cosa pensa di cambiare nel suo approccio professionale e cosa invece vuole mutuare dal suo passato dirigenziale.
R. In un certo senso voglio fare lo stesso che ho sempre fatto, ragionare da squadra.
E se ci penso non cambia nulla, perché una squadra ce l’ho ed è fatta da 16 club e non da giocatori ma il mio obiettivo è sempre quello di sviluppare la chimica giusta per arrivare a vincere o, nel caso cambiare quello che serve. Amo essere pratico, pragmatico e pensare in concreto coinvolgendo tutti i “giocatori” nelle scelte strategiche.
D. Chiudiamo con uno slancio verso il prossimo futuro. Ci dia tre parole d’ordine per il suo triennio di mandato.
R. Pragmatismo, condivisione, team working. (Ma anche sostenibilità). Veda lei cosa preferisce.