L’Olimpia nel destino, il Milan sfiorato. Dan Peterson ha scritto la storia del basket italiano, e, dopo essere emigrato dagli USA, non si è mai più guardato indietro e ha fatto di Milano, terra in cui è salito sul tetto d’Europa, la sua casa.
«Ho sempre considerato Milano la New York d’Europa – ha dichiarato in un’intervista a Repubblica -. E l’ho scelta come casa. È la mia città ormai, più di Evanston, Illinois, dove non torno dal 2018».
Dan Peterson: il ciclo vincente all’Olimpia
Il capoluogo lombardo, e specie i colori biancorossi, sono inscindibilmente legati al coach statunitense, un binomio che sembra scritto negli astri: «Nati entrambi il 9 gennaio 1936. Era destino che ci incontrassimo».
Nei nove anni vissuti a Milano, si era creata un’alchimia unica con la piazza, che fu il preludio di un ciclo vincente, con un palmares che recita quattro scudetti e soprattutto la Coppa dei Campioni, grazie all’unione simbiotica delle componenti societarie.
«Uno staff formidabile e un presidente come Gianmario Gabetti, che ebbe il coraggio di prendere l’Olimpia e di non mollarla dopo il crollo a causa della neve del Palazzetto di San Siro, nel 1985. Non ci siamo mai sentiti soli. Mi sono sempre ritenuto in debito con lui alla milionesima potenza».
Dan Peterson: la Coppa dei Campioni e il ritiro dal parquet
Ricordi indelebili e un cammino trionfale nell’annata 1986-87, quella della cavalcata nell’olimpo del basket continentale. E proprio di quella stagione è la gara a cui Peterson è maggiormente affezionato.
«Non ho dubbi: la rimonta sull’Aris Salonicco nei quarti di Coppa dei Campioni 1986-87. Venivamo dal -31 in Grecia. Quella sera sentimmo una spinta incredibile del Forum. Vincemmo 83-49. E alla fine avremmo sollevato la Coppa. Bob McAdoo mi racconta che quella è stata la serata più incredibile della sua carriera. E lui ha lasciato strati di pelle sul campo da basket».
Un finale in crescendo, che poi si è concluso con l’addio prematuro al parquet a soli 51 anni, scelta di cui poi si è pentito. Voleva chiudere da vincente del resto, ed è stato forte anche il condizionamento dei rumors.
«Grande errore. Avevo vinto tre scudetti di fila. Avevo tv e pubblicità, non avrei voluto sentire da nessuno: “Peterson perde perché ha mille altre cose oltre al basket”. Tornassi indietro non lo rifarei».

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La chiamata della nazionale e un approccio inatteso
Le offerte nel 1987 del resto non mancavano, in primis quella dei colori azzurri, con la chiamata che arrivò puntuale proprio mentre Peterson ha maturato l’addio all’Olimpia. Ma l’accordo non si chiuse per fattori extra-campo.
«Ero negli Usa. In maniera goffa, fui chiamato da Ceccotti, vicepresidente federale: “Possiamo darti solo 150 milioni”. “Accetto” gli risposi. “Ma devi lasciare tutto il resto”. Gli dissi: “Mi hai chiamato per farmi dire no”. E gli consigliai di riprendere Sandro Gamba. La scelta migliore».
Oltre all’offerta recapitata dall’Italbasket, arrivò anche un approccio inaspettato all’apparenza, ma quantomeno intrigante. Peterson ha infatti sfiorato il mondo del calcio, sempre nella sua città adottiva
«Sempre nel 1987, Berlusconi voleva per il Milan qualcosa di rivoluzionario, una persona fuori dal calcio, un motivatore. Chiese informazioni a Bruno Bogarelli, che era anche mio manager. E lui gli disse: “Peterson potrebbe dirigere anche un night”. Per dire che avrei potuto fare qualunque cosa. Dissi: “Finita la mia stagione, a bocce ferme, si può fare tutto”. Poi presero Arrigo Sacchi».
Dan Peterson: Il ritorno a casa oltre trent’anni dopo l’addio
Il coach aveva studiato nei minimi dettagli l’approdo nel club rossonero, immaginando già un squadra dietro le quinte che potesse colmare le sue lacune tecnico-tattiche, con il ruolo da direttore d’orchestra cucito su misura per lui.
«Mi sarei circondato di persone con grande esperienza di campo nel calcio. Avrei costruito un gruppo di lavoro, per le questioni tecniche mi sarei affidato a persone competenti. Un coach group, con me alla testa come motivatore. È possibile, sì».
La miglior testimonianza del suo pentimento rispetto alla scelta di lasciare la pallacanestro fu proprio la decisione di tornare sui suoi passi. La nostalgia di casa era troppa, e nel 2011, a 75 anni, cedette alle lusinghe di Giorgio Armani.
«Una parentesi bellissima per la quale ringrazierò sempre Giorgio. Fu come ritrovare la strada di casa. Ne parlo anche nel libro, nato dalla stessa esigenza di Orwell: si scrive per essere storici di sé stessi».
Lo sbarco dell’NBA in Europa e il movimento cestistico italiano
Una chiosa invece sull’attualità, in cui domina il tema dell’ingresso nel basket europeo dell’NBA. Da statunitense prestato al Vecchio Continente, nessuno come Dan Peterson ha chiaro la portata che potrebbe avere questo progetto:«Se fatto bene, è potenzialmente rivoluzionario».
Infine, il tema del movimento cestistico nazionale, con la necessità di alzare il livello in un panorama europeo sempre più competitivo, e al contempo di alimentare e allargare sempre più il bacino di talenti da cui può attingere la nazionale.
«Ci vogliono almeno due italiani fissi in campo. E un esempio per tutti deve essere Armani, l’italiano più conosciuto al mondo che investe tanto nel basket e al Forum non manca mai nelle occasioni importanti. Deve essere lui la prua della nave del movimento italiano».