Dal calcio, dove negli anni 90 è stato una delle colonne portanti del Milan degli “Invincibili” e della Nazionale, al padel, nella veste di giocatore ma soprattutto di imprenditore. Demetrio Albertini, oltre a cavarsela molto bene con la racchetta, è infatti uno dei soci del City Padel Milano, uno dei centri più famosi in Italia, aperto nel moderno quartiere di CityLife nel 2018, quando il padel era ancora uno sport per pochissimi. Un’intuizione frutto degli anni passati dall’ex centrocampista rossonero in Spagna, prima all’Atletico Madrid e poi al Barcellona, dove a chiuso la carriera calcistica nei primi anni 2000.
Correva l’anno 2003 quando affacciandosi dalla finestra del suo hotel a Madrid vide giocare a un qualcosa che non era tennis e tantomeno pelota, scoprì in seguito essere padel. Cosa fu la prima cosa che la colpì?
Era semplice, diretto, immediato. E chi stava giocando non era in una sorta di “trance agonistica” ma pareva proprio divertirsi. Le sfide successive alla mia carriera calcistica erano state il tennis e lo sci; lascio intendere che non ho avuto mesi semplici. Con il padel l’approccio è stato diverso: la vera cosa che mi ha fatto appassionare e l’aver raggiunto in fretta un buon livello di soddisfazione. Credo questo non riguardi solo me ma riesca a toccare tutti: ed è proprio questa la chiave del successo del padel.
Si dice spesso infatti che è uno dei pochi sport dove ci si diverte anche a giocare male…
Vero, mi sento di poterlo confermare. Dico sempre che l’entry level, l’agonismo è un’altra cosa, è davvero basso ed è proprio per tutti. In questo senso è uno sport molto “furbo” diciamo.
Tornando al paragone con il tennis i primi mesi li si passa a raccogliere le palline. Il padel invece è talmente semplice che hai voglia di ricominciare subito.
Poi, andando avanti con la pratica, subentra l’elemento della competizione, come in ogni sport, e si vuole chiaramente vincere.
In questo caso occorre allenare la tecnica ed entriamo, come dicevo, in un altro discorso.
Quando ha realizzato questa nuova passione potesse essere un asse imprenditoriale da percorrere?
Quando ho capito che sarei stato in grado di valorizzare l’attrattività. Mi spiego meglio: se uno sport è recepito facilmente dalle persone allora può essere veramente attrattivo ed è un fattore più che determinante per uno sport giovane. Siamo di fronte a una disciplina accessibile sia per la dinamica di gioco che economicamente; non servono molti euro per iniziare.
Che consigli darebbe a chi volesse intraprendere un percorso imprenditoriale?
Premetto che la differenza, in termini di strutture, la fanno soprattutto i servizi; tutto quel “contorno” che ci deve essere a livello infrastrutturale va curato perché è determinante. Purtroppo in questo momento di forte espansione del padel molti parlano senza sapere. Si pensa banalmente che a livello imprenditoriale sia un qualcosa di molto facile da mettere in piedi e altrettanto redditizio. Nulla di più sbagliato: il business del padel va impostato, un impianto deve essere funzionale e sostenibile, sia in termini economici che ambientali. Questo sottolinea il valore dell’attrattività, come spiegavo prima.
I tempi per la realizzazione di un nuovo impianto sono molto lunghi: si stima da un minimo di un anno per le strutture più piccole, fino a un massimo di tre anni per realtà più organizzate.
I tempi di realizzazione sono veramente lunghissimi, lo confermo. Forse dare maggiori possibilità ai progetti di riconversione permetterebbe di accelerare: credo sia importante investire sulla rigenerazione urbana, dare una nuova vita a spazi in disuso. Per questo occorre trovare maggiori fondi per proseguire in questo percorso. La riqualificazione deve muoversi sempre più nella direzione dello sport: mi piacerebbe che in un futuro non troppo lontano nelle nostre città si possa trovare il campo da padel come troviamo ora i campetti da calcio, in strutture pubbliche, liberi e accessibili a tutti.
Così avremo la crescita degli atleti.
Quali possono essere gli scenari possibili per il prossimo futuro? Si stimano 25mila campi entro il 2030.
Forse sono eccessivi per l’Italia, Paese in cui si patisce una burocrazia disarmante. Non abbiamo un progetto di crescita organizzato: alcune amministrazioni ti seguono di più, altre decisamente meno ed è un peccato oltre che uno spreco. In Spagna ci sono più 100.000 campi per 6milioni di praticanti, in Italia siamo passati da circa 50.000 praticanti nel 2019 a 1milione stimati per quest’anno: il trend è analogo alla Spagna, la domanda c’è ma va accompagnata dalle autorità locali.
A suo avviso il padel è vissuto come una moda anche in termini imprenditoriali?
In molti sostengono che questo sport sia una moda, a tutti i livelli. Io non penso sia un fenomeno passeggero, ho seguito la sua evoluzione, la sua crescita e penso sia destinato a durare anche in futuro. Va detto che è uno sport molto giovane, che si può sciupare, contaminare e proprio per questo andrebbe salvaguardato.
Come si può salvaguardare?
Partendo dalle norme, che occorrono. Credo che realizzare un impianto normativo per questa disciplina sia fondamentale, partendo da un’omologazione standard per le strutture da gioco. In questi anni ho incontrato tante strutture, tanti posti, di cui oggettivamente avevo una certa paura, per questo dico bando agli improvvisati.
Un altro fattore indispensabile riguarda la creazione di un’organizzazione ancor più importante a livello federale, capace di indirizzare lo sviluppo.
Io nasco istituzionale, lo ammetto, ma credo che un’organizzazione in cui far convergere tutto sia indispensabile, dall’omologazione delle strutture fino all’organizzazione dei tornei, senza dimenticare la formazione dei maestri e degli atleti che attualmente è ancora molto acerba.
Ho una grande attesa per questo.
Ad oggi più del 40% dei praticanti è over 40. Mancano quasi del tutto i settori giovanili.
I ragazzi cominciano adesso a poter giocare: nel nostro circolo siamo passati da 69 a 1.330 tesserati in pochissimo tempo e avevamo 80 under 16, davvero tantissimi. Ma per una crescita vera dobbiamo assistere a un’inversione di tendenza: i top player italiani sono fondamentalmente ex tennisti mentre il numero uno al mondo, Galán con cui ho avuto il piacere di parlare poco tempo fa, teneva già in mano una racchetta da padel a 5 anni.
In buona sostanza il sistema cambierà realmente solo quando i nostri atleti nasceranno già “padelisti”.